Tecnica del Nuoto.
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Sono stato invitato a partecipare al raduno di nuotatori antichi, di cui mi considero collega, se ricordo i miei piccoli primati che resistono da sempre. Per esempio quello di aver vinto nel 1952 a Salerno, con una formazione che contava tre fratelli Anghileri, il campionato italiano juniores della 4x200.
Oppure, meglio ancora, un quinto posto a Napoli nella 3x100 mista assoluta, come
usava nel 1951, quando eravamo presenti soltanto in due ma ottenni il rimborso per tre, tesserando a sua insaputa un concittadino ex campione di canottaggio.
Ho lasciato le mie tracce negli albi d’oro, e sorvolo su prodezze minori, come quella di aver schierato la prima nuotatrice italiana in grado di coprire 100 metri a farfalla per vincere un titolo nazionale, o la divisione dei compiti fra le due più forti specialiste azzurre che allora allenavo (“tu vinci la rana e fai la seconda nella farfalla, e viceversa”).
E mi fa piacere che a dar vita ai miei ricordi siano le prime due protagoniste delle piscine che ho frequentato. Paola Saini (foto sotto a sinistra), che nel 1961 al Sei Nazioni di Malmoe si impose a sorpresa nei 100 crawl in 1'02”6, tempo mai nuotato quell’anno in Europa. Daniela Beneck (foto sotto a destra) cui dobbiamo il primo record europeo femminile di un’azzurra, 2’18”0 nei 200 a Roma nel 1965.
Al raduno attuale ormai non sono fisicamente in grado di essere presente. Sono coetaneo di Papa Benedetto XVI, devo cedere la parola a Paola e Daniela, figlie di padri illustri ed entrate nella storia per i loro risultati in piscina. Mi limito a quell’incontro femminile Francia-Italia del 1962 a Parigi, tutti quanti riparati sotto il trampolino al riparo dalla pioggia, perché era luglio e l’unico che l’aveva immaginato, attrezzato con un impermeabile, era il giornalista della Gazzetta. Quella staffetta 4x100 crawl vinse la gara e decise l’incontro 44-43, con la Pacifici e la Passagnoli affiancate a Paola e Daniela.
Le quali discendono entrambe da famiglie importanti. Mario Saini era già nello sport nell’anteguerra a Torino, poi fece carriera nel Coni divenendone vice segretario, il più competente in fatto d’impianti, il più preparato nel campo dei problemi tecnici, di costi, stimato da tutto l’ambiente.
Accompagnava Paola in piscina alle sette del mattino, lei si allenava e lui controllava il numero degli operai, il progredire dei lavori, il rispetto dei capitolati.
Forse per tutti questi impegni, con tante responsabilità addosso, un anno prima dell’Olimpiade fu colpito da un infarto. “Temo che l’Olimpiade non si faccia più”, drammatizzò Gualtiero Zanetti, futuro direttore della Gazzetta dello Sport, mettendo a fuoco la situazione.
Alla fine del 1962 il neo presidente Luigi Durand de le Penne (foto sotto a sinistra), medaglia d’oro al valor militare ma digiuno in fatto di nuoto, si accorse di guidare una organizzazione discutibile e propose di essere nominato Commissario per rivedere lo Statuto, il Coni lo ascoltò in parte, ma nominò Commissario Mario Saini (foto sotto a destra), in teoria soltanto per il periodo di sei mesi, affiancato come consultori dagli ex vicepresidenti Catalani, Codecà, Sambuelli e dall’ex consigliere De Luca.
Passano due anni, e durante l’Olimpiade di Tokyo Usmiani propone a Parodi, su suggerimento del padre della centista milanese Renata Berti, esclusa dai Giochi senza giustificazione, di scovare un possibile presidente. Parodi riflette, ascolta pareri, e decide di proporre se stesso. “Tu sei pazzo da legare”, commenta Usmiani, che si è sempre considerato boiardo di personaggi di primo piano ma estranei al nuoto. Invece Parodi ha ragione, raccoglie adesioni, ha in tasca foglietti colmi di cifre, la voce arriva a Tokyo, quando è tardi per rimediare. E Parodi diverrà presidente per 20 anni, a causa della dabbenaggine federale nell’eliminazione della Berti.
L’altro genitore, Bruno Beneck, era regista televisivo e presidente della Federazione baseball. Non so per quale ragione, ma mi stimava molto. Compose un volumone storico con centinaia di fotografie, e mise in evidenza, a scapito di quanto scritto da colleghi che non è il caso di nominare, quanto dedicai nel 1974 alla carriera di Novella Calligaris (foto sotto).
“Abbiamo sempre pensato che il purosangue è diverso, che il giornalista di razza interpreta i fatti e li commenta in materia diversa e sempre meglio. Ne abbiamo la conferma leggendo il commento dedicato alla prova europea di Novella, scritto da Aronne Anghileri su la Gazzetta dello Sport di quell’ormai lontano, ma non dimenticato, 1974”.
Cara Novella, ora vorremmo scriverle una lettera, noi che abbiamo avuto l’onore di non essere salutati per quasi un anno per averla criticata al tempo in cui era un giamburrasca insopportabile, maleducata con le avversarie, scortese con i dirigenti e con tutti. Vorremmo scriverle una lettera di ringraziamento e di stima oggi che la sua carriera ha raggiunto veramente il momento da cui indietro non si torna…Vorremmo ringraziarla per essere uscita a testa alta, con estrema dignità, concludendo sino all’ultimo la sua battaglia con tutti gli occhi puntati addosso e tutte le tedesche dell’est coalizzate contro di lei, sola…
Cara Novella, vorremmo usare la parola “commovente”, una parola che non si dovrebbe scrivere mai se non per fare bassa retorica. Ci sono tuttavia momenti nella vita in cui deve essere consentito essere commossi… quando se ne va un atleta che ci ha fatto passare molti dei momenti migliori della nostra vita di cronisti.
Vedere Novella uscire dall’acqua dura in viso, una sfinge, raccogliere le sue cose… arrivare vicino a Parodi e non avere la forza di parlare, di rispondergli. Chissà che le avrà detto. Poi Novella si volta, risponde, piange. Piange con Parodi. Un volta non ne sarebbe stata capace, gli avrebbe detto parole cattivissime… Novella ha chiuso, lo sappiamo tutti e lei per prima… Diremo che è una resa molto onorevole, è un partire per l’esilio con l’onore delle armi. Novella, qui ha guidato da capitana la squadra femminile, la più forte che l’Italia abbia mai avuto… Un ciclo finisce, quello che inizia non è del tutto oscuro…
L’anno successivo ai Campionati Mondiali di Cali, in Colombia, dove era presente sponsorizzata con altri campioni di grande nome come Spitz, a Novella venne richiesto di scrivere articoli per il Corriere della Sera. Era ovviamente impreparata, non aveva mai usato una macchina da scrivere. Chiese il mio aiuto, le suggeriì di adottare temi da ex campione del mondo, non da cronista normale, lei entrò nel giornalismo e nella televisione. E c’è ancora, peccato non sia qui.
In quella Federazione del dopoguerra, piuttosto approssimativa, uno come me non poteva nascondersi, sopportare le camarille, le alleanze prebelliche (tipo Usmiani-Manazzon, che si parlavano in lingua veneta). Tanto è vero che quando il nuovo presidente Greppi, parlamentare ed ex sindaco di Milano, si accorse di avere a disposizione un vivace rappresentante delle nuove generazioni, azzeccò una scelta, e mi affidò il mensile federale, che usciva ogni tanto, impresentabile.
Non era mia abitudine stare zitto, fingere di niente. Avevo già cominciato a collaborare alla Gazzetta dello Sport, quando Furio Lettich, il più valido giornalista del settore, si trasferì al Giorno segnalandomi a Gianni Brera. Firmai il mio primo articolo la mattina iniziale, e continuai per anni, fui a Budapest per i campionati europei 1958, a celebrare il vittorioso Pucci, Lazzari, la 4x200 e Galletti sul podio. Lavoravo per la Gazzetta e Il Giorno, e redigevo anche il mensile federale.
Tutto bene, se dietro le quinte non avesse operato Umberto Usmiani, esule fiumano sistemato alla Fiat, che dopo anni di disprezzo per Parodi ne divenne sostenitore e amico nel 1961, <esibendosi con offese ed apprezzamenti contro Percuoco candidato alla presidenza, e il Coni. Per il suo carattere è poco indicato a fare il dirigente>, secondo il meditato parere di Gegè De Luca, proprietario dell’unico vulcano privato al mondo, la Solfatara di Pozzuoli. E alla fine Usmiani si fece da parte, in attesa di giorni migliori.
Usmiani era un uomo-ombra, e nel 1965 al Sei Nazioni di Roma riuscì a schierare la ranista Schiezzari del Fiat, malgrado fosse sofferente per un attacco di appendicite, e la staffetta azzurra finì ultima. Poi impedì alle riserve Borracci e Chimisso di intervenire alla festa finale, mentre le riserve della squadra femminile erano tutte presenti. La Gazzetta segnalò il fatto, e Usmiani se ne accorse il giorno seguente a Catania, dove si svolse un altro incontro, con Carmen Longo a sostituire la Schiezzari, e conseguente miglioramento di 3” nella staffetta. Lui se la prese con il giornalista: <Non voglio più vederti né sentirti!>. Mantenne la parola per anni, perfino quando nel 1968 tornò da Brema dopo aver accompagnato le salme dei nuotatori azzurri periti nell’atterraggio e all’Albergo Clodio si trovò faccia a faccia con atleti e dirigenti arrivati per le esequie. Aveva avuto ragione De Luca.
A Brema io non ero andato, salvandomi la vita, perché c’ero già stato in precedenza con una squadra di 22 atleti, invece questa volta erano soltanto in sette, mentre a Genova il Recco affrontava un girone eliminatorio di Coppa Campioni. Tuttavia quel venerdì sera, 27 gennaio, rincasando transitai davanti all’Hotel Splendido, alloggio degli Azzurri. Entrai, c’erano Carmen Longo e Chimisso (che intervistai, perché recentemente si era messo in luce nei 200 misti) e poi sedetti al ristorante ad ascoltare Bianchi e Rora, arrivati da Torino dopo l’ultimo allenamento.
Il sabato mattina mi recai al Terminal, all’epoca in funzione alla Stazione Centrale di Milano, e li incontrai tutti: Costoli che con De Gregorio e la Massenzi era arrivato da Roma molto tardi, la Samuele, il telecronista Sapio, Però Linate era chiuso, i voli non partivano. Avvertii il presidente Parodi, che abitava di fronte alla stazione, e lui arrivò con un itinerario ferroviario per raggiungere Brema in treno, steso dal segretario Cenni. Passarono ore di discorsi, ricordi, osservazioni, mentre Costoli preoccupatissimo cercava altre soluzioni e intanto (gli avevo dato il numero di telefono ed un gettone, gli servirono per l’ultimo saluto della sua vita al fratello Manlio) aveva scoperto un aereo per Zurigo, e da lì per Francoforte e Brema.
Partirono. Io andai al giornale, scrissi l’intervista della sera precedente a Chimisso, poi in auto con il presidente Parodi andai a Genova per la pallanuoto. Alla piscina di Albaro, sulla balconata riservata alle autorità sedettero un decina di persone. Dopo la prima partita trasmisi poche righe, e dal giornale mi chiesero che sapevo dell’aereo caduto a Brema. Nulla, in piscina eravamo all’oscuro. Mi dissero che vi erano dieci italiani morti, si attendevano notizie più precise. Andai a quella balconata, feci cenni allarmati a Parodi e al vicepresidente Ghibellini, Pensarono che avessi litigato con qualcuno. Dovetti invece dare la notizia più sconvolgente della mia vita. Nessuno di noi seguì la partita del Recco, non lasciammo mai il telefono, alla fine rientrammo a Milano.
Alla Gazzetta il giornale era già stampato, c’era anche l’intervista a Chimisso, ovviamente titolo a nove colonne. In piena notte arrivai a casa, mia figlia di sette anni si svegliò e mi chiese se sapevo di Carmen, alla quale lei era affezionata. Mi misi a scrivere, raccontai tutto quello che ricordavo della mattinata precedente, pensavo di partire per Brema subito, ma l’aeroporto era ancora chiuso, non era il caso di perdere una giornata in treno. Il giorno seguente, per quello che avevo rievocato il direttore Zanetti titolò a tutta pagina:
<Il cordoglio del Paese per il lutto dello sport italiano
Con la tragica scomparsa di questi giovani solo adesso sappiamo
… CHE COSA ABBIAMO PERDUTO>
Nel successivo mese di giugno si disputò a Roma il meeting Sette Colli, presente la squadra tedesca in grande imbarazzo. E nella piscina olimpica fu posta una lapide in cristallo che ricordava la tragedia. Ignoti vandali la distrussero nell’inverno, e ci vollero più di 40 anni perché la Gazzetta ne ottenesse la sostituzione. E la Federazione si distinse a sua volta: erano trascorsi pochi mesi, ma l’addetto all’organizzazione del Sette Colli trovò logico prevedere la solita festa, i soliti balli, come se non fosse successo nulla. Non si oppose nessuno, da Parodi in giù. Quando qualcuno lo fece notare, il sagace organizzatore si difese: <Non ci avevo pensato>.
Aronne Anghileri