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Londra, 6 agosto – 30a Olimpiade/Nuoto Azzurro – L’analisi di una débacle

Un salto indietro nel tempo

Forse per molti anni abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Ci toccherà accontentarci di sognare soltanto posti in finale?

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Ospitiamo oggi un apprezzato intervento del collega Dario Torromeo, veterano di Olimpiadi e Mondiali, già inviato del Corriere dello Sport al seguito degli eventi di nuoto ed ora freelance. Le sue riflessioni sono stimolanti, leggiamolo con attenzione.

Un salto di quasi trent’anni indietro nel tempo. Los Angeles 1984 era stata l’ultima Olimpiade in cui il nuoto italiano non compariva nel medagliere. Poi ci avevano pensato Stefano Battistelli, Luca Sacchi e Emanuele Merisi a tenerci dentro con quattro bronzi in attesa della Grande Stagione cominciata nel 2000 a Sydney e chiusasi a Londra 2012 (Giorgio Lamberti è stato grande ai Mondiali, ma non ai Giochi).

La prima sensazione che ho, ancora prima di pensare all’importanza di Federica Pellegrini nell’intero bilancio azzurro, è che ci manchi qualcosa. Manca Alberto Castagnetti, l’uomo che aveva saputo gestire con capacità, competenza, carisma, cultura e senso dell’umorismo l’intero movimento. Con lui avevamo portato a casa quattro ori/tre argenti/sette bronzi olimpici. E adesso siamo a mani vuote.

Alberto non era solo un allenatore o un coordinatore, era un personaggio di riferimento, l’unico che abbia saputo relazionarsi nella giusta maniera con la Pellegrini. Da tecnico ad atleta, sempre un gradino più su di una ragazza che aveva bisogno di essere ascoltata, ma soprattutto di avere davanti a sé una persona che le indicasse la strada. Sempre, in ogni momento, senza dovere per forza (prima) confrontarsi con lei.

Ma Alberto, purtroppo, non c’è più. E allora dobbiamo abituarci a una realtà pesante, sicuramente deludente. Viviamo in una società che non concede onori ai secondi. Uno vince, tutti gli altri perdono.

E’ questa mancanza di cultura sportiva che produce effetti disastrosi, crea speranze esagerate e genera sconquassi a ogni delusione. E purtroppo che si trovi qualcuno più bravo di noi, è diventato dannatamente normale.

E’ vero, i due quinti posti di Federica hanno deluso in maniera clamorosa. Anche perché ognuno di noi, lei per prima, non ha voluto vedere la realtà di una stagione che non offriva appigli a cui aggrapparsi. Quinta dunque, solo quattro nuotatrici al mondo sono state più forti di lei. Un fallimento. Ma fermiamoci un attimo a pensare. Facciamolo questo salto indietro nel tempo.

C’era una volta in cui gli italiani lottavano con l’obiettivo massimo di entrare in finale. Era già un successo. Parliamo della storia fino alla prima metà degli anni Ottanta, con l’unica meravigliosa eccezione di Novella Calligaris (Giochi di Monaco 1972, Campionati del Mondo di Belgrado 1973) ed il bronzo della 4x100sl maschile (Pangaro, Barelli, Zei, Guarducci) ai Mondiali di Cali 1975. Poi è arrivata la generazione dei Fioravanti, Rosolino, Brembilla e allora abbiamo imparato a fare i gradassi. Vincevamo medaglie a doppia cifra ai campionati europei e facevamo spallucce, come se tutto ci fosse dovuto. C’eravamo abituati al caviale, ogni cosa fosse leggermente al di sotto ci faceva quasi schifo.

Pippo Magnini, e i suoi due Mondiali sui 100 stile libero, ci avevano fatto credere di essere un popolo di velocisti. Illusione che ci è rimasta fino a Londra 2012, se è vero che pensavamo di andare a medaglia con la 4x100 stile libero.

Il grande salto è cominciato a Siviglia 1997, Europei da ricordare. Poi, via di questo passo, fino all’arrivo di Federica Pellegrini e (in misura minore) di Alessia Filippi. Sino al risveglio nella triste, fredda e piovosa Londra. In una delle Olimpiadi peggio organizzate, tra le dieci a cui ho partecipato da giornalista. C’è qualcosa di antico nelle parole che ho sentito pronunciare da qualche dirigente. “Ilaria Bianchi, quinta nei 100 farfalla, è il miglior risultato italiano in questa Olimpiade”. Ecco, improvvisamente sono finiti i tempi in cui un bronzo era visto con sufficienza, quasi contasse davvero niente. Avevamo imparato a vivere da ricchi, sarà difficile tornare a gustare i piccoli risultati. Ma già ci stiamo abituando.

Poche piscine, calendario sbagliato, troppi allenatori cambiati in poco tempo, manca il coordinamento tecnico, eccessivo clima di tensione, non c’è il gruppo, non si segue una comune linea di allenamento. Ne ho sentite tante nei giorni londinesi. Ho ascoltato ed ho capito che ancora, e non poteva essere altrimenti, mancava chi individuasse il cuore del problema. Ad essere chiari, neppure io l’ho centrato.

Abbiamo vissuto per dodici anni al di sopra delle nostre possibilità. Con cinque nuotatori/nuotatrici di qualità assoluta abbiamo creduto di avere un movimento forte come Stati Uniti, Cina, Francia. Non siamo neppure sui livelli di Olanda, Sudafrica o dell’Australia di oggi.

Ripartiamo da zero medaglie, torniamo a lottare per un posto in finale. Mi viene un po’ di tristezza a fare questa riflessione. Anch’io mi ero abituato troppo bene. Eppure dal 2004 a oggi, a livello mondiale, eravamo vissuti quasi esclusivamente sulle spalle di un’atleta. Le parentesi esaltanti erano state Magnini (due ori ai Mondiali sui 100sl) e Filippi (argento ai Giochi sugli 800sl, bronzo nella stessa gara ai Mondiali e oro nei 1500 che non sono distanza olimpica).

Ha fallito Federica, ha fallito il nuoto italiano. C’eravamo illusi con Scozzoli e Paltrinieri (sono giovani e di talento, avranno tempo per rifarsi), abbiamo nuovamente fatto il salto del gambero. Approdo in finale e nulla più.

Siamo stati travolti dall’ondata del nulla. E quando non si vince, si urla. Una volta le accuse a caldo dei nuotatori non avevano grande eco. Non erano personaggi abbastanza popolari. Oggi con televisioni, settimanali (ma anche quotidiani) che si occupano di loro come fossero gente dello spettacolo, ogni parola ha un peso cento volte superiore. E anche un’accusa senza grande fondamento diventa una valanga che travolge tutto. Ma sono fiducioso. Per carità, resto convinto che non troveremo (almeno per i prossimi venti anni) una nuova Pellegrini, ma sono altrettanto certo che non rimpiomberemo nel concetto “una finale è il nostro massimo obiettivo”.

Dario Torromeo

 

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